SE MUORE IL SUD


Il volume di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, Se muore il Sud (Feltrinelli, Milano 2013) è un’inchiesta, con un impressionante accumulo di dati e percentuali, con un piglio narrativo immediato, per allertare che il Mezzogiorno va alla deriva. Di qui l’incipit preoccupato “Fate presto. Il Sud affonda”, perchè di fronte all’abbandono del Mezzogiorno al suo destino ed alla rassegnazione per l’impossibilità di strapparlo alle mafie, alle clientele, alla malapolitica, i due autori provocano vari soggetti senza fare sconti a nessuno,  “perchè il Mezzogiorno sta andando al disastro. E non serve a niente giorno dopo giorno voltarsi  dall’altra parte. Vale per la destra, vale per la sinistra. (...) Vale per i politici ed i professionisti ed i rettori universitari settentrionali, che per decenni non si sono fatti scrupolo, per vincere a Roma, di stringere alleanze inconfessabili con il peggio del peggio del ceto dirigente meridionale. Vale per gli imprenditori, che nelle terre bagnate dalle generose provvidenze della Cassa per il Mezzogiorno hanno visto mille volte solo l’occasione di un saccheggio. Ma vale soprattutto per i meridionali, perchè in troppi sospirano sui torti subiti “dai tempi più antichi” e sembrano ormai aver accantonato ogni volontà di riscatto. Ogni speranza di rinascita culturale, economica e civile” (pp. 7-8).

Per la disanima della deriva del Sud, parlano un serie impressionante di numeri (dati e percentuali):  decine di migliaia di falsi braccianti (il 99,1% di tutta Italia), centinaia di milioni di euro dissipati in finti corsi di formazione, innumerevoli lavori pubblici fatti solo per far lavorare le imprese (amiche) con la scusa di creare occupazione, enormi spese nella sanità con risultati miseri, crescente divaricazione fra alti stipendi e pauperizzazione dello stesso ceto medio non solo per la recente crisi economica del paese, spreco ed inefficienza dei servizi pubblici, dalla mobilità alla raccolta dei rifiuti, il cancro delle varie mafie o meglio delle organizzazione criminali che hanno esteso la loro presenza ed influenza anche a regioni centro-settentrionali, gruppi della criminalità organizzata ed imprese che prosperano su appalti pubblici. Non in ultimo, “Fondi europei: sperpero immenso e risultati zero” come titola un capitolo del libro.

La prima considerazione su questo brillante lavoro riguarda il genere letterario, che è quello dell’inchiesta giornalistica (che non è una brutta parola) documentata per richiamare l’attenzione sull’abbandono della “questione meridionale” nel pubblico dibattito e produrre un risveglio politico e civile  a partire allo stesso Mezzogiorno. A questo proposito bisogna segnalare l’uso imponente di dati numerici e statistici che sostanziano i vari capitoli del volume, che vanno discussi ed interpretati accuratamente in riferimento alle loro fonti e temporalità. Inoltre, ci sembra che si incrocino dati aggiornati sulle varie situazioni critiche  delle regioni meridionali e la persistenza del divario economico e sociale nei confronti delle altre regioni del paese, tema quest’ultimo che appartiene all’analisi economica e alla storia economica quando si tratta di arretratezza del Mezzogiorno. Cioè alla creazione e distribuzione della ricchezza delle nazioni, per dirla con Adam Smith, ed uscire da una anomalia italiana.

In secondo luogo, nella ricerca delle spiegazioni di questa arretratezza in conformità con le analisi degli studiosi del meridionalismo classico, viene additato il “patto empio che alimenta un ceto dirigente di mestieranti incapaci, spregiudicati, insaziabili. Quando non collusi con la criminalità organizzata”. O più generalmente - con disappunto - una classe dirigente che lascia affondare un pezzo dell’Italia, come nel citato volume di Emanuele Felice che prova a fornire una spiegazione sul “Perchè il Mezzogiorno è rimasto indietro”, e accusa le classi dirigenti  o meglio dominanti meridionali.
La passione civile ed unitaria dei due Autori appare dalla dedica del volume “Ai nostri genitori, quelli terroni e quelli polentoni, che si sono sempre sentiti semplicemente italiani”.

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