Papa Francesco sul senso dell'Europa
dal discorso di Papa Francesco - 28 ottobre 2017
Parlare di un contributo cristiano al futuro del
continente significa anzitutto interrogarsi sul nostro compito come cristiani
oggi, in queste terre così riccamente plasmate nel corso dei secoli dalla fede.
Qual è la nostra responsabilità in un tempo in cui il volto dell’Europa è
sempre più connotato da una pluralità di culture e di religioni, mentre per
molti il cristianesimo è percepito come un elemento del passato, lontano ed
estraneo?
Persona e comunità
Nel tramonto
della civiltà antica, mentre le glorie di Roma divenivano quelle rovine che
ancora oggi possiamo ammirare in città; mentre nuovi popoli premevano sui confini
dell’antico Impero, un giovane fece riecheggiare la voce del Salmista: «Chi è
l'uomo che vuole la vita e desidera vedere giorni felici?». [1] Nel proporre questo interrogativo nel Prologo
della Regola, san Benedetto pose
all’attenzione dei suoi contemporanei, e anche nostra, una concezione dell’uomo
radicalmente diversa da quella che aveva contraddistinto la classicità
greco-romana, e ancor più di quella violenta che aveva caratterizzato le
invasioni barbariche. L’uomo non è più semplicemente un civis, un cittadino dotato di privilegi da consumarsi nell’ozio;
non è più un miles, combattivo
servitore del potere di turno; soprattutto non è più un servus, merce di scambio priva di libertà destinata unicamente al
lavoro e alla fatica.
San Benedetto non
bada alla condizione sociale, né alla ricchezza, né al potere detenuto. Egli fa
appello alla natura comune di ogni essere umano, che, qualunque sia la sua
condizione, brama certamente la vita e desidera giorni felici. Per Benedetto
non ci sono ruoli, ci sono persone: non ci sono aggettivi, ci sono sostantivi.
È proprio questo uno dei valori fondamentali che il cristianesimo ha portato:
il senso della persona, costituita a immagine di Dio. A partire da tale
principio si costruiranno i monasteri, che diverranno nel tempo culla della
rinascita umana, culturale, religiosa ed anche economica del continente.
Il primo, e forse
più grande, contributo che i cristiani possono portare all’Europa di oggi è
ricordarle che essa non è una raccolta di numeri o di istituzioni, ma è fatta
di persone. Purtroppo, si nota come spesso qualunque dibattito si riduca
facilmente ad una discussione di cifre. Non ci sono i cittadini, ci sono i
voti. Non ci sono i migranti, ci sono le quote. Non ci sono lavoratori, ci sono
gli indicatori economici. Non ci sono i poveri, ci sono le soglie di povertà.
Il concreto della persona umana è così ridotto ad un principio astratto, più
comodo e tranquillizzante. Se ne comprende la ragione: le persone hanno volti,
ci obbligano ad una responsabilità reale, fattiva, “personale”; le cifre ci
occupano con ragionamenti, anche utili ed importanti, ma rimarranno sempre
senz’anima. Ci offrono l’alibi di un disimpegno, perché non ci toccano mai
nella carne.
Riconoscere che
l’altro è anzitutto una persona, significa valorizzare ciò che mi unisce a lui.
L’essere persone ci lega agli altri, ci fa essere comunità. Dunque il secondo contributo che i cristiani possono
apportare al futuro dell’Europa è la riscoperta del senso di appartenenza ad
una comunità. Non a caso i Padri fondatori del progetto europeo scelsero
proprio tale parola per identificare il nuovo soggetto politico che andava
costituendosi. La comunità è il più grande antidoto agli individualismi che
caratterizzano il nostro tempo, a quella tendenza diffusa oggi in Occidente a
concepirsi e a vivere in solitudine. Si fraintende il concetto di libertà,
interpretandolo quasi fosse il dovere di
essere soli, sciolti da qualunque legame, e di conseguenza si è costruita
una società sradicata priva di senso di appartenenza e di eredità. E per me
questo è grave.
I cristiani
riconoscono che la loro identità è innanzitutto relazionale. Essi sono inseriti
come membra di un corpo, la Chiesa (cfr 1
Cor12,12), nel quale ciascuno con la propria identità e peculiarità
partecipa liberamente all’edificazione comune. Analogamente tale relazione si
dà anche nell’ambito dei rapporti interpersonali e della società civile.
Dinanzi all’altro, ciascuno scopre i suoi pregi e i difetti; i suoi punti di
forza e le sue debolezze: in altre parole scopre il suo volto, comprende la sua
identità.
La famiglia, come
prima comunità, rimane il più fondamentale luogo di tale scoperta. In essa, la
diversità è esaltata e nello stesso tempo è ricompresa nell’unità. La famiglia
è l’unione armonica delle differenze
tra l’uomo e la donna, che è tanto più vera e profonda quanto più è generativa,
capace di aprirsi alla vita e agli altri. Parimenti, una comunità civile è viva
se sa essere aperta, se sa accogliere la diversità e le doti di ciascuno e
nello stesso tempo se sa generare nuove vite, come pure sviluppo, lavoro,
innovazione e cultura.
Persona e
comunità sono dunque le fondamenta dell’Europa che come cristiani vogliamo e
possiamo contribuire a costruire. I mattoni di tale edificio si chiamano:
dialogo, inclusione, solidarietà, sviluppo e pace.
Un luogo di dialogo
Oggi tutta
l’Europa, dall’Atlantico agli Urali, dal Polo Nord al Mare Mediterraneo, non
può permettersi di mancare l’opportunità di essere anzitutto un luogo di dialogo, sincero e costruttivo
allo stesso tempo, in cui tutti i protagonisti hanno pari dignità. Siamo
chiamati a edificare un’Europa nella quale ci si possa incontrare e confrontare
a tutti i livelli, in un certo senso come lo era l’agoràantica. Tale era infatti la piazza della polis. Non solo spazio di scambio economico, ma anche cuore
nevralgico della politica, sede in cui si elaboravano le leggi per il benessere
di tutti; luogo in cui si affacciava il tempio così che alla dimensione
orizzontale della vita quotidiana non mancasse mai il respiro trascendente che
fa guardare oltre l’effimero, il passeggero e il provvisorio.
Ciò ci spinge a
considerare il ruolo positivo e costruttivo che in generale la religione
possiede nell’edificazione della società. Penso ad esempio al contributo del
dialogo interreligioso nel favorire la conoscenza reciproca tra cristiani e
musulmani in Europa. Purtroppo, un certo pregiudizio laicista, ancora in auge,
non è in grado di percepire il valore positivo per la società del ruolo
pubblico e oggettivo della religione, preferendo relegarla ad una sfera
meramente privata e sentimentale. Si instaura così pure il predominio di un
certo pensiero unico,[2] assai diffuso nei consessi internazionali, che
vede nell’affermazione di un’identità religiosa un pericolo per sé e per la
propria egemonia, finendo così per favorire un’artefatta contrapposizione fra
il diritto alla libertà religiosa e altri diritti fondamentali. C'è un divorzio
fra loro.
Favorire il
dialogo – qualunque dialogo – è una responsabilità basilare della politica, e,
purtroppo, si nota troppo spesso come essa si trasformi piuttosto in sede di
scontro fra forze contrastanti. Alla voce del dialogo si sostituiscono le urla
delle rivendicazioni. Da più parti si ha la sensazione che il bene comune non
sia più l’obiettivo primario perseguito e tale disinteresse è percepito da
molti cittadini. Trovano così terreno fertile in molti Paesi le formazioni estremiste
e populiste che fanno della protesta il cuore del loro messaggio politico,
senza tuttavia offrire l’alternativa di un costruttivo progetto politico. Al
dialogo si sostituisce, o una contrapposizione sterile, che può anche mettere
in pericolo la convivenza civile, o un’egemonia del potere politico che
ingabbia e impedisce una vera vita democratica. In un caso si distruggono i
ponti e nell’altro si costruiscono muri. E oggi l'Europa conosce ambedue.
I cristiani sono
chiamati a favorire il dialogo politico, specialmente laddove esso è minacciato
e sembra prevalere lo scontro. I cristiani sono chiamati a ridare dignità alla
politica, intesa come massimo servizio al bene comune e non come un’occupazione
di potere. Ciò richiede anche un’adeguata formazione, perché la politica non è
“l’arte dell’improvvisazione”, bensì un’espressione alta di abnegazione e
dedizione personale a vantaggio della comunità. Essere leader esige studio, preparazione ed esperienza.
Un ambito inclusivo
Responsabilità
comune dei leader è favorire un’Europa che sia una comunità inclusiva, libera da un fraintendimento
di fondo: inclusione non è sinonimo di appiattimento indifferenziato. Al
contrario, si è autenticamente inclusivi allorché si sanno valorizzare le
differenze, assumendole come patrimonio comune e arricchente. In questa
prospettiva, i migranti sono una risorsa più che un peso. I cristiani sono
chiamati a meditare seriamente l’affermazione di Gesù: «Ero straniero e mi
avete accolto» (Mt 25,35).
Soprattutto davanti al dramma dei profughi e dei rifugiati, non ci si può
dimenticare il fatto di essere di fronte a delle persone, le quali non possono
essere scelte o scartate a proprio piacimento, secondo logiche politiche,
economiche o perfino religiose.
Tuttavia, ciò non
è in contrasto con il dovere di ogni autorità di governo di gestire la
questione migratoria «con la virtù propria del governante, cioè la prudenza»,[3] che deve tener conto tanto della necessità di
avere un cuore aperto, quanto della possibilità di integrare pienamente coloro
che giungono nel paese a livello sociale, economico e politico. Non si può
pensare che il fenomeno migratorio sia un processo indiscriminato e senza
regole, ma non si possono nemmeno ergere muri di indifferenza o di paura. Da
parte loro, gli stessi migranti non devono tralasciare l’onere grave di
conoscere, rispettare e anche assimilare la cultura e le tradizioni della
nazione che li accoglie.
Uno spazio di solidarietà
Adoperarsi per
una comunità inclusiva significa edificare uno spazio di solidarietà. Essere comunità implica infatti che ci si
sostenga a vicenda e dunque che non possono essere solo alcuni a portare pesi e
compiere sacrifici straordinari, mentre altri rimangono arroccati a difesa di
posizioni privilegiate. Un’Unione Europea che, nell’affrontare le sue crisi,
non riscoprisse il senso di essere un’unica comunità che si sostiene e si aiuta
– e non un insieme di piccoli gruppi d’interesse – perderebbe non solo una
delle sfide più importanti della sua storia, ma anche una delle più grandi
opportunità per il suo avvenire.
La solidarietà,
quella parola che tante volte sembra che si voglia cacciare via dal dizionario.
La solidarietà, che nella prospettiva cristiana trova la sua ragion d’essere
nel precetto dell’amore (cfr Mt
22,37-40), non può che essere la linfa vitale di una comunità viva e matura.
Insieme all’altro principio cardine della sussidiarietà, essa riguarda non solo
i rapporti fra gli Stati e le Regioni d’Europa. Essere una comunità solidale
significa avere premura per i più deboli della società, per i poveri, per
quanti sono scartati dai sistemi economici e sociali, a partire dagli anziani e
dai disoccupati. Ma la solidarietà esige anche che si recuperi la
collaborazione e il sostegno reciproco fra le generazioni.
A partire dagli
anni Sessanta del secolo scorso è in atto un conflitto generazionale senza
precedenti. Nel consegnare alle nuove generazioni gli ideali che hanno fatto
grande l’Europa, si può dire iperbolicamente che alla tradizione si è preferito
il tradimento. Al rigetto di ciò che giungeva dai padri, è seguito così il
tempo di una drammatica sterilità. Non solo perché in Europa si fanno pochi
figli - il nostro inverno demografico -, e troppi sono quelli che sono stati
privati del diritto di nascere, ma anche perché ci si è scoperti incapaci di
consegnare ai giovani gli strumenti materiali e culturali per affrontare il futuro.
L’Europa vive una sorta di deficit di
memoria. Tornare ad essere comunità solidale significa riscoprire il valore
del proprio passato, per arricchire il proprio presente e consegnare ai posteri
un futuro di speranza.
Tanti giovani si
trovano invece smarriti davanti all’assenza di radici e di prospettive, sono
sradicati, «in balia delle onde e trasportati qua e là da qualsiasi vento di
dottrina» (Ef 4,14); talvolta anche
“prigionieri” di adulti possessivi, che faticano a sostenere il compito che
spetta loro. Grave è l’onere di educare, non solo offrendo un insieme di
conoscenze tecniche e scientifiche, ma soprattutto adoperandosi «per promuovere
la perfezione integrale della persona umana, come anche per il bene della
società terrena e per la edificazione di un mondo più umano».[4] Ciò esige il coinvolgimento di tutta la società.
L’educazione è un compito comune, che richiede l’attiva partecipazione allo
stesso tempo dei genitori, della scuola e delle università, delle istituzioni
religiose e della società civile. Senza educazione, non si genera cultura e
s’inaridisce il tessuto vitale delle comunità.
Una sorgente di sviluppo
L’Europa che si
riscopre comunità sarà sicuramente una sorgente
di sviluppo per sé e per tutto il mondo. Sviluppo è da intendersi
nell’accezione che il Beato Paolo VI diede a tale parola. «Per essere autentico
sviluppo deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni
uomo e di tutto l’uomo. Com’è stato giustamente sottolineato da un eminente
esperto: “noi non accettiamo di separare l’economico dall’umano, lo sviluppo
dalla civiltà dove si inserisce. Ciò che conta per noi è l’uomo, ogni uomo,
ogni gruppo d’uomini, fino a comprendere l’umanità intera”».[5]
Certamente allo
sviluppo dell’uomo contribuisce il lavoro, che è un fattore essenziale per la
dignità e la maturazione della persona. Serve lavoro e servono condizioni
adeguate di lavoro. Nel secolo scorso non sono mancati esempi eloquenti di
imprenditori cristiani che hanno compreso come il successo delle loro
iniziative dipendeva anzitutto dalla possibilità di offrire opportunità di
impiego e condizioni degne di occupazione. Occorre ripartire dallo spirito di
quelle iniziative, che sono anche il miglior antidoto agli scompensi provocati
da una globalizzazione senz’anima,
una globalizzazione "sferica", che, più attenta al profitto che alle
persone, ha creato diffuse sacche di povertà, disoccupazione, sfruttamento e di
malessere sociale.
Sarebbe opportuno
anche riscoprire la necessità di una concretezza del lavoro, soprattutto per i
giovani. Oggi molti tendono a rifuggire lavori in settori un tempo cruciali,
perché ritenuti faticosi e poco remunerativi, dimenticando quanto essi siano
indispensabili per lo sviluppo umano. Che ne sarebbe di noi, senza l’impegno
delle persone che con il lavoro contribuiscono al nostro nutrimento quotidiano?
Che ne sarebbe di noi senza il lavoro paziente e ingegnoso di chi tesse i
vestiti che indossiamo o costruisce le case che abitiamo? Molte professioni oggi
ritenute di second’ordine sono fondamentali. Lo sono dal punto di vista
sociale, ma soprattutto lo sono per la soddisfazione che i lavoratori ricevono
dal poter essere utili per sé e per gli altri attraverso il loro impegno
quotidiano.
Spetta parimenti
ai governi creare le condizioni economiche che favoriscano una sana
imprenditoria e livelli adeguati di impiego. Alla politica compete specialmente
riattivare un circolo virtuoso che, a
partire da investimenti a favore della famiglia e dell’educazione, consenta lo
sviluppo armonioso e pacifico dell’intera comunità civile.
Una promessa di pace
Infine, l’impegno
dei cristiani in Europa deve costituire una
promessa di pace. Fu questo il pensiero principale che animò i firmatari
dei Trattati di Roma. Dopo due guerre mondiali e violenze atroci di popoli
contro popoli, era giunto il tempo di affermare il diritto alla pace.[6] È un diritto. Ancora oggi però vediamo come la
pace sia un bene fragile e le logiche particolari e nazionali rischiano di
vanificare i sogni coraggiosi dei fondatori dell’Europa.[7]
Tuttavia, essere
operatori di pace (cfr Mt 5,9) non
significa solamente adoperarsi per evitare le tensioni interne, lavorare per
porre fine a numerosi conflitti che insanguinano il mondo o recare sollievo a
chi soffre. Essere operatori di pace significa farsi promotori di una cultura della pace. Ciò esige amore alla
verità, senza la quale non possono esistere rapporti umani autentici, e ricerca
della giustizia, senza la quale la sopraffazione è la norma imperante di
qualunque comunità.
La pace esige
pure creatività. L’Unione Europea manterrà fede alla suo impegno di pace nella
misura in cui non perderà la speranza e saprà rinnovarsi per rispondere alle
necessità e alle attese dei propri cittadini. Cent’anni fa, proprio in questi
giorni iniziava la battaglia di Caporetto, una delle più drammatiche della
Grande Guerra. Essa fu l’apice di una guerra di logoramento, quale fu il primo
conflitto mondiale, che ebbe il triste primato di mietere innumerevoli vittime
a fronte di risibili conquiste. Da quell’evento impariamo che se ci si trincera
dietro le proprie posizioni, si finisce per soccombere. Non è dunque questo il
tempo di costruire trincee, bensì quello di avere il coraggio di lavorare per
perseguire appieno il sogno dei Padri fondatori di un’Europa unita e concorde,
comunità di popoli desiderosi di condividere un destino di sviluppo e di pace.
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