Un'intera generazione a rischio (Repubblica Napoli)

articolo da Repubblica Napoli, 27 dicembre 2017
Il sociologo della Federico II Luciano Brancaccio si occupa di criminalità organizzata, il primo riferimento a cui si pensa per atti delinquenziali come quelli che in pochi giorni hanno coinvolto prima il diciassettenne Arturo, accoltellato senza ragione a Napoli, e poi il quattordicenne Luigi, colpito alla testa da un proiettile sparato da chi, nel Casertano, usa la pistola al posto dei botti di Capodanno. 

«Ma devo dire che questi episodi mi sembrano lontani da una matrice mafiosa. Sono tra l'altro episodi diversi fra loro: quello ai danni di Arturo riconduce a una violenza urbana sempre più diffusa, della quale si fa fatica a capire le ragioni e i soggetti che la compiono. Una violenza che potrebbe verificarsi in qualsiasi grande metropoli, con le contraddizioni che anche Napoli ha, come quella di avere aree di emarginazione sociale a contatto con zone centrali della città, come per gli episodi di esplosione di violenza giovanile dei baretti di Chiaia».

Crede alla possibilità di fenomeni di emulazione? «Secondo me no, la violenza diffusa in città non nasce ora». A quali fatti si riferisce? «Ricordo che anni fa giravano ragazzi che prendevano a schiaffi gli inermi. Molti di questi episodi non passavano sui media. Oggi, invece, finiscono sui giornali più spesso. Negli anni Novanta le sparatorie erano trafiletti, ora pagine intere. I dati statistici su cui possiamo contare danno gli omicidi in calo. In aumento sono gli episodi di violenza diffusa riconducibili a giovani che frequentato zone centrali e si scontrano con giovani perbene, come nel caso di Arturo: una violenza che nasce dalla diversità».

La camorra dunque non c'entra niente? «A me il ragionamento sul camorrista da emulare come modello di successo e ricchezza sembra davvero piuttosto debole. A Napoli il modello camorrista c'è da sempre. La violenza urbana ha delle sue cause scatenanti specifiche. Non è smettendo di trasmettere questo o quel telefilm che risolveremo il problema».

Perché secondo lei girano tutti armati pur essendo così giovani? «Il problema riguarda i modelli comportamentali delle giovani generazioni: a Napoli si innestano in una realtà in cui l'illegalità è diffusa, l'assenza di regole è conclamata, la possibilità di procacciarsi armi è una prerogativa della delinquenza locale, questo crea un mercato di armi: un ragazzino che vuole fare colpo sull'amico sa dove procurarsele. E poi c'è l'elemento promiscuità: la criminalità organizzata napoletana abita in tutti i luoghi della città, non è ghettizzata come nella banlieu parigina. A Napoli abbiamo la periferia nel centro, Dunque anche chi non è riconducibile a questi circuiti può ottenere armi, droga».

La causa è questa? «Non mi sembra: il problema è strutturale». Ma attualmente che vita fa un giovane in una città come questa? «Dipende dalla sua estrazione. Chi vive in una famiglia di disoccupati non ha e non percepisce prospettive, molto più che in passato. Le disuguaglianze crescono, le possibilità calano. Basta guardare gli iscritti alle università: sono in discesa, nessuno si illude che gli atenei possano essere una strada di mobilità sociale. Chi può va a studiare fuori.

Le famiglie maturano l'idea che non ci sono speranze». La responsabilità di chi è? «Delle istituzioni locali e centrali, Si ha l'idea di una città che non è più governata e in cui non ci sono regole. Il Comune qui è assente, a parte alcuni punti dove l'opinione pubblica protesta, come per la movida»

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