ESPERIENZE PASTORALI DEL MIO CAMMINO A SCAMPIA (parte 2)

L'articolo di cui pubblichiamo la seconda parte è uscito sul numero 34/2013 del periodico di attualità pastorale Settimana, edito dalle Dehoniane. Leggi la parte 1.


Una delle espressioni prevalenti di preghiera e di devozione mariana “eccessiva” ma esplicabile di queste “care signore” è la recita del rosario anche prima della messa domenicale, secondo una formula che risale a più di cinquant’anni fa ed ignora i “misteri luminosi”. Certo si può pregare anche con il Rosario, il sottoscritto la sera lo recita per ricordare persone care. Per renderni ragione e dare ragione di una retta devozione mariana che non oscuri il “cristocentrismo” (Cfr Cristianesimo o Marianesimo?), ho dato queste indicazioni a un giovane genovese che sperimentava difficoltà nel rapporto con Maria: 

“la figura di Maria appartiene alla “storia delle salvezza” secondo la narrazione evangelica, come donna madre di Dio secondo la definizione di uno dei primi concili della Chiesa, e ora appartiene al “mondo celeste” per quel che significa e viene celebrata nella liturgia cattolica in diverse feste e invocata dai fedeli. A questo punto si tratta di una progressiva presa di coscienza della figura di Maria e di una possibile conseguente invocazione, secondo una decisione personale e nella comunità dei credenti, nell’ambito della ricerca spirituale. Al di là del sostegno e conforto offerto nel tempo a tante e tanti che l’hanno invocata, viene da pensare che non è un culto “pericoloso”, che non sovverte modelli o strutture culturali e religiose, e in secondo luogo che non può essere totalizzante ma sempre in direzione della fede nel Signore Gesù Cristo. La figura di Maria costituisce un punto delicato di passaggio dal noto al non noto, cioè verso il Mistero.”
 
Per spiegarmi una serie di atteggiamenti e comportamenti religiosi di questi gruppi (religiosità sinceramente devozionale), che non coprono tutto l’ambito dei fedeli che frequentano la nostra chiesa, ci si può riferire ad una concezione sacrale e salvifica del sacerdote che affiora dal passato e quindi della sua centralità nella vita della Chiesa, che è stata inculcata ai fedeli nei decenni precedenti in assenza di un’assimilazione ed attuazione dell’insegnamento conciliare sul “popolo di Dio” e di una “rivoluzione culturale” nei ceti meno privilegiati.


A distanza di un cinquantennio dal Concilio Vaticano II si coglie nella vita di alcune comunità cristiane non solo in periferia una sorta di “riclerizzazzione” per cui il parroco è il dominus delle decisioni, e al contempo una sorta di “affiliazione clericale” da parte di gruppi di fedeli per concordanza su stili di vita parrocchiali. Due piccoli esempi rivelatori: un giovane parroco di Scampia ad un pranzo in occasione della festa di una congregazione di suore mi chiede: “Che cosa dice la sociologia in merito alla durata di questo entusiasmo nei confronti di papa Francesco?” come a dire: quando si ritorna al vecchio stile autoritario e magisteriale? Naturalmente non sono un indovino, replico: ho incontrato all’inizio di luglio un dirigente nazionale dell’AC e docente universitario e gli ho chiesto: “Perché la vostra organizzazione non parla, non si esprime pubblicamente sui problemi della Chiesa e della società?” La sua risposta immediata: “Non ci lasciano parlare!”, intendendo che altri si riservano diritto di parola, cioè i Vescovi della Chiesa italiana. Si può, quando è il caso, per la franchezza affrontare qualche costo, altrimenti si cerca solo di conservare posizioni e posti anche in un’organizzazione ecclesiastica. 

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