SE IL PAPA SCOMUNICA I MAFIOSI
tratta da tribunodelpopolo.it |
Al di là di questi importanti interventi pubblici di pontefici, non si
possono ignorare più articolati documenti e riflessioni, come il documento della
Conferenza episcopale italiana Per un
paese solidale. Chiesa italiana e
Mezzogiorno, Bologna 2010,
in riferimento in particolare alle discussioni sulla
mafia devota o religiosità dei mafiosi, all’atteggiamento della chiesa nei
confronti delle diverse forme di criminalità organizzata nel Mezzogiorno, all’incompatibilità
tra agire mafioso e Vangelo cristiano. In continuità con il documento del 1989
che condannava la criminalità organizzata come un “cancro”, il documento
menzionato rinnova la condanna di questa criminalità come una delle “sue piaghe
più profonde e durature” che impedisce al Mezzogiorno di liberare tutte le sue
energie, costituisce un ostacolo allo sviluppo economico, esercita un controllo
malavitoso del territorio, si avvale di una cultura che consente di rigenerarsi
anche dopo le sconfitte inflitte dallo Stato. E la società civile nelle diverse
regioni fa fatica a scuotersi ed a reagire efficacemente.
Merita attenzione in questo documento la chiara definizione delle mafie
non solo come “peccato” ma come “strutture di peccato”, o “peccato sociale”
anche per le conseguenze che ne derivano per la conversione ed il pentimento
dei mafiosi. Alla luce dei testimoni che si sono immolati per la causa della
giustizia (don Pino Puglisi, don Giuseppe Diana, il giudice Rosario Livatino),
nel contesto meridionale “le mafie sono
la configurazione più drammatica del “male e del “peccato. In questa
prospettiva, non possono essere semplicisticamente interpretate come
espressione di una religiosità distorta, ma come una forma brutale e devastante
di rifiuto di Dio e di fraintendimento della vera religione; le mafie sono
strutture di peccato: solo la decisione di convertirsi e di rifiutare una
mentalità mafiosa permette di uscirne veramente e, se necessario, subire violenza
ed immolarsi” (n. 9).
Nella chiara ed articolata denuncia della piaga profonda rappresentata
dalla criminalità organizzata nelle regioni meridionali, e nella riaffermazione
dell’incompatibilità della mentalità e dell’agire mafioso con la lezione del
Vangelo cristiano, solo poche parole sono spese per “riconoscere che le Chiese debbono ancora recepire sino in fondo la
lezione profetica di Giovanni Paolo II e l’esempio dei testimoni per la
giustizia” (n. 9). C’è un richiamo alla cosiddetta “zona grigia”, che
talvolta comprende anche uomini di chiesa, in riferimento ai tanti che cedono
alla tentazione di non parlare più del problema, o di considerare i temi del
contrasto alla mafie come estranei ai compiti pastorali o di limitarsi a
parlarne come di un male antico ed invincibile, e la testimonianza di quanti
hanno sacrificato la vita nella lotta o nella resistenza alla criminalità
organizzata rischia di rimanere un esempio isolato. Si tratta di verificare per
il territorio napoletano e campano fino a che è maturata la consapevolezza che i metodi, la cultura, gli stili di
vita, le relazioni estese di cui è capace il sistema camorra sono “strutture di
peccato” che alimentano quella architettura di peccato illegale che soffoca la
vita sociale.
Il riferimento ad una religiosità distorta o senza “costrutto morale” (come Croce definiva la religiosità del
popolo napoletano nel Settecento) richiama un’ immaginario religioso
tradizionale o devozionale che è comune a strati delle popolazioni meridionali
e che non mette in questione contiguità culturali che costituiscono un humus di
riproduzione delle pratiche malavitose. Nello stesso tempo la definizione delle
mafie come “strutture di peccato” o “peccato sociale” porta ad interrogarsi da
parte degli operatori religiosi a contatto con i reclusi nelle carceri sulla
valenza o dimensioni della conversione, del pentimento, della riparazione che
non possono essere puramente soggettive o individuali. Questi e simili problemi
debbono interessare le sedi di elaborazione teologica e di formazione dei
futuri presbiteri e religiosi per colmare la lacuna di una riflessione più
specificamente teologica o etico-religiosa sui rapporti tra religione e le
diverse forme di criminalità organizzata nel Mezzogiorno. Sotto questo profilo
bisogna segnalare il recente sussidio dell’Arcidiocesi napoletana per una
catechesi dentro le mura “Andate in città”, Napoli 2014, che, sulla scia delle
“Sette opere di misericordia” dipinte dal Caravaggio nel Pio monte della
misericordia, dedica un ampio contributo al carcere per colpa, al carcere per
povertà (usura), al carcere per sofferenza morale. Si evidenzia,secondo il sociologo napoletano Giacomo Di Gennaro,
la necessità di “una linea pastorale
capace di coinvolgere le diverse realtà ecclesiali spesso ignare della gravità
del problema o capace di non abnegare al ruolo profetico di una chiesa locale
che proprio sul terreno del contrasto alla camorra, dell’educazione alla
legalità come senso dell’agire civile e di uno stile di vita più eticamente
orientato dei cittadini può trovare più coraggiose motivazioni di aggregazione”.
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