Figure femminili nel Vangelo di Marco

di Annalisi Guida

Le figure femminili nel Vangelo di Marco sono quantitativamente ridotte fino a Mc 15,40. Anonime, quasi invisibili, ad esse si fa sempre riferimento come suocere, mogli, madri, figlie di…, il che va contestualizzato in una cultura che le considera imprescindibilmente dai loro legami familiari – quasi come se al di fuori di tali legami esse non avessero una propria autonoma identità -, ma anche in un vangelo che per i personaggi ‘secondari’ o comparsa è restio ad usare i nomi propri. Eppure alcuni episodi incastonati in questo vangelo basterebbero a farci capire che esse, per quanto anonime e ‘dipendenti’, sono davvero eccezionali.
Secondo Susan Miller 2004 (Women in the Gospel of Mark) , ci sono tre tratti distintivi della presentazione dei personaggi femminili nel Secondo Vangelo, quasi esclusivi della loro caratterizzazione nel sistema dei personaggi marciano:
  1. esse servono Gesù – (cf 1,31 e 15,41, la suocera di Pietro e le discepole galilaiche, che incorniciano la missione di Gesù; eccezion fatta per gli angeli, le donne sono le uniche a servire Gesù).
Il verbo diakonèo è associato in Mc alle donne, e poi usato solo per Gesù e per gli angeli, non solo come verbo quotidiano per la preparazione del cibo, ma come termine “tecnico” del discepolato (così Gesù lo associa a se stesso in 10,45 e invita i discepoli a farsi servi in 9,35 e 10,43).
La suocera di Pietro, liberata dalla febbre, come se fosse la cosa più naturale del mondo, non si riserva un tempo per ristabilirsi, ma comincia a servire i presenti, con un aspetto durativo dell’azione (cf l’imperfetto diekònei) che ne fa, come qualcuno dice, la prima diaconessa del vangelo.
lnoltre le donne restano serve fedeli anche nel tempo della debolezza e della prova. Proprio la mancanza di uno status particolare nel gruppo dei discepoli fa sì che esse si identifichino con la impotenza di Gesù crocifisso. Le donne alla croce e alla tomba cercano e trovano modi diversi per esserci senza cercare di preservare la loro vita. Esprimono così un desiderio di restare fedeli a Gesù nonostante il fallimento della sua missione. Gesù non sostituisce i discepoli mancanti, ma dà il compito dell’annuncio alle donne. Il servire tradizionale acquista un significato teologico.

  1. esse ungono Gesù (14,3-9; 16,1-8) e il loro dono fa contrasto con i complotti mortiferi delle autorità maschili. A Betania ha luogo un’ azione profetica, svolta in silenzio: la donna tace (del resto le donne in Marco non hanno la stessa libertà e disinvoltura di parlare in pubblico come i personaggi maschili) e la sua è un’azione simbolica perché non ha accesso alle parole. Ella ha ogni iniziativa: entra, spezza, versa. Il capo di Gesù, che tra poche scene sarà oggetto di ben altre, beffarde attenzioni da parte dei soldati, viene ora unto di un nardo genuino e costoso, come sottolinea Marco a differenza di Matteo e Luca. Gli astanti si indignano ma sono distanti, alla distanza di chi non riconosce nello spreco il gesto bello. Lo sdegno degli spettatori si fa quasi fremito di rabbia, ma Gesù interviene in favore della donna: Ella ha compiuto un gesto bello nei miei confronti. Solo Gesù ribalta la prospettiva. Come solo questa donna nei paraggi ha letto correttamente gli eventi che stanno accompagnando l’approssimarsi di Gesù ai fatti decisivi di Gerusalemme, così solo Gesù legge la sincerità e l’opportunità del gesto. C’è un senso del tempo e della capacità di cogliere il tempo opportuno (o di riconoscere che è giunto il tempo opportuno) che il lettore di Marco deve aver acquisito come segno escatologico già dall’apertura di 1,14-15. Questo, allora, per Marco è il momento per riconoscere in che modo si sta profilando l’identità attuale e futura di Gesù. E solo la donna lo fa. Solo la donna riconosce il momento, diventando, così, modello per gli altri, tutti gli altri, i presenti e i futuri destinatari del vangelo.

  1. esse sono testimoni chiave della morte di Gesù e della sua resurrezione (15,40-41; 15,47). Il loro è un atto di coraggio e di resistenza, di fronte alla solitudine in cui Gesù è stato lasciato dall’amicizia maschile. Le donne presenti alla crocifissione osservano attentamente, e in un vangelo tutto giocato sul binomio cecità/visione, non è possibile non sottolineare il valore di questo verbo.
Ma io aggiungerei un quarto tratto a mio giudizio distintivo di questo vangelo:
  1. le donne in Marco sono le uniche a sorprendere Gesù e a fargli cambiare idea! E mi bastano i due personaggi meravigliosi dell’emorroissa (Mc 5,24b-34 ) e della sirofenicia (7,24-30) a dimostrarlo. In primo luogo queste due donne sfidano i tabù sociali e sono le uniche che parlano direttamente con Gesù!
Con la guarigione dell’emorroissa ci troviamo quasi di fronte ad un miracolo non intenzionale, strappato a Gesù mediante il tocco (coraggioso perché disperato) della donna; tuttavia è evidente che l’accento del brano si pone non tanto su un potere incontrollato, ma sulla fiducia/certezza della donna e sulla sorpresa che l’efficacia di quel toccare genere in Gesù stesso. Gesù è quasi spiazzato: non ha previsto quel miracolo, ma esso è chiaramente nel progetto di Dio; la donna lo ha intuito e ci ha provato! Così, dopo non molto, avviene anche per opera di un’altra donna, anch’essa ai margini, che ‘strappa’ a Gesù un altro miracolo… Una donna ai margini, perché di origine siro-fenicia, quindi pagana. Una donna, anche questa, ma stavolta per conto della figlia. Si getta ai piedi di Gesù, incurante di quanti la vedono e possono giudicarla, e lo implora. Gesù ha già guarito tanti, finora, e non si è risparmiato, né è stato lì a soppesare, andando per il sottile, la dignità o meno dei suoi beneficiari. Il lettore si sorprende, quindi, del suo rifiuto apparentemente immotivato, eppure la donna prende il rifiuto con calma e sviluppa lei stessa la metafora usata da Gesù a proprio vantaggio: “Signore, anche i cagnolini sotto la tavola mangiano delle briciole dei figli”. Il Gesù di Marco ne rimane impressionato e fa per lei, immediatamente (non dopo, ma subito, nel “tempo” dei figli!) quanto implorato. La donna scommette e vince perché capisce che ha diritto alla misericordia di Dio. È questa la sua grande intuizione. Non chiede privilegi, non vuole boicottare la priorità di Israele ma dimostra di essere capace di credere all’abbondanza della misericordia di Dio alla quale anche lei può accedere! E si dimostra, così, infinitamente superiore ai maestri farisei e pure ai simpatici – ma un po’ ottusi – discepoli: il puro/impuro non esiste; nulla è indegno di ricevere la grazia di Dio. Ma quanta libertà interiore (e anche quanta disperazione, quanta fame di bene, certo…) serve per arrivare a questa comprensione? Questa era stata la chiave di volta anche nella guarigione dell’emorroissa: “Se solo riesco a toccarlo…”… È quella la fiducia: l’azione misericordiosa di Dio che vedo in azione in Gesù è talmente sovrabbondante che a buon diritto posso sperare e credere ce ne sia un po’ anche per me.
Mi sia permesso aggiungere, ancora, un quinto tratto, ossia:

  1. i personaggi femminili sono gli unici che in questo Vangelo vengono portati da Gesù come esempio, mostrati provocatoriamente esemplari rispetto a un mondo maschile, potente, presuntuosamente sapiente e in verità molto lontano dal regno di Dio. L’emorroissa e la madre siro-fenicia, preparano il terreno alla la povera vedova di Mc 12,41-44 (e poi ci sarà la donna di Betania). Non perfette, anche in parte fallibili, ma capaci di cogliere il senso profondo, il momento opportuno, e creatrici di gesti reali e intimamente connessi alla natura del regno; e, ancora, sempre in forte antitesi con il potere, maschio, tronfio e arrogante, sia quello politico e sociale del tempo sia quello più nascosto che cerca di affermarsi già nella chiesa nascente. Un povera vedova chiude, dunque, con la sua involontaria esemplarità un capitolo in cui sono stati zittiti e ridimensionati tutti i rappresentanti dell’establishment religioso di Israele, i detentori della verità: ella, infatti, dona “tutta la sua vita”, tutto quanto aveva per vivere, tutta se stessa, sapendo che da Dio lo ha ricevuto e a Dio tutto fa ritorno. Il superfluo non le ha obnubilato la mente né il cuore, perché l’esperienza della povertà e della vedovanza le ha insegnato a riconoscere l’essenziale, a riconoscersi bisognosa, ad affidarsi totalmente a Dio.

Commenti

Più letti