Donne dell'Esodo: la madre di Mosé

di Stefania Ioppolo


Il libro dell’Esodo è il secondo libro sia della Bibbia cristiana che della Torah ebraica. I temi teologici affrontati in esso ne fanno uno dei fulcri della dottrina religiosa.
La narrazione si può suddividere in tre parti.
La prima comprende il racconto dell'oppressione degli Ebrei in Egitto, la nascita di Mosè, la sua fuga a Madian, il ritorno in Egitto, le dieci piaghe e l'uscita dal paese.
La seconda parte narra del viaggio lungo la costa del Mar Rosso e nel deserto del Sinai.
La terza ed ultima parte riguarda l'incontro tra Dio e il popolo d’Israele, con le tappe fondamentali del decalogo e del codice dell'alleanza seguito dall'episodio del Vitello d'oro e dalla costruzione dell’arca.

Nella prima parte le donne, di cui alcune non ebree, sono le protagoniste di episodi di fondamentale importanza; ancora una volta Dio si serve di chi è giudicato ultimo nella società per portare avanti il suo progetto di salvezza, dalle levatrici, a cui è dato il compito di accogliere la vita, agli altri personaggi femminili che rappresentano la  Vigilanza, la Cura, la Dedizione e che  potremmo definire le “madri dell’esodo”. In ogni loro intervento dimostrano sempre che al di sopra di tutto c’è l’amore per la vita e la fede in Dio. 

Un elemento simbolico che sembra fare da filo conduttore in questa narrazione, associato alle azioni delle donne, è l’acqua; l’acqua che accoglie, nutre, salva, vivifica, ristora, purifica: è l’acqua che aiuta a nascere, l’acqua del fiume in cui viene posta la culla di Mosè, l’acqua delle lacrime della madre, le acque del mare che si aprono per far passare il popolo eletto, l’acqua donata a Miriam che vivifica la fede appassita degli Israeliti nel deserto; dovunque l’acqua è, si accompagna sempre alla misericordia di Dio. 


Le levatrici d’Egitto
L’evento dell’esodo rappresenta il modello di ogni atto di liberazione narrato sia nel Vecchio che nel Nuovo Testamento, ma allo stesso tempo rappresenta anche la nascita di un nuovo popolo di Dio, Israele, che stringerà con Esso non una ,ma due alleanze.
Al centro di questa narrazione c’è la figura di Mosè, ma un ruolo fondamentale in questa storia di salvezza, liberazione e rinascita, si è detto, è affidato alle donne, a partire da quelle che sono le prime ad accogliere l’uomo nel momento iniziale della vita: le levatrici.
Il re d'Egitto disse alle levatrici degli Ebrei, delle quali una si chiamava Sifra e l'altra Pua: «Quando assistete le donne ebree durante il parto, osservate bene tra le due pietre: se è un maschio, fatelo morire; se è una femmina potrà vivere» (Es 1,15-16).
Il mestiere della levatrice era in Egitto molto stimato e sviluppato, tutto al femminile, che aveva il compito fondamentale di accogliere la vita, momento sacro per ogni cultura.
Il narratore fa conoscere il loro nome per mettere in risalto chi è che conta agli occhi del Signore. Sifra e Pua, donne di origine egiziana, rifiutandosi di obbedire a Faraone riconoscono innanzitutto la superiorità di un Dio nemmeno lontanamente paragonabile a quello che vorrebbe essere il faraone stesso, e rappresentano la prima grande testimonianza di fede, quella che non fa temere di perdere la propria vita davanti al rifiuto di obbedire all’ordine di un capo che aveva potere di vita e di morte ,dimostrando un amore per la vita che è fondamentalmente amore per Dio e le sue creature, oltre ogni religione, ogni cultura e ogni idolatria .
Ma le levatrici temettero Dio: non fecero come aveva ordinato loro il re d’Egitto e lasciarono vivere i bambini. (Es 1, 17-18)
Il timore di Dio che hanno le levatrici non è paura di una punizione, cosa che hanno dimostrato di non avere disubbidendo al faraone ma è, piuttosto, un profondo rispetto per la vita e amore per essa.
Le levatrici non creano nulla e non danno ordini, il loro compito è quello di essere semplicemente al servizio della vita, aiutando e consolando la madre nel momento del parto e accogliendo il bambino appena nato nelle loro braccia; rendere servizio alla vita è rendere servizio al Dio creatore .
La disubbidienza delle levatrici è il primo passo che renderà possibile la liberazione del popolo ebreo e la nascita del popolo d’ Israele attraverso la nascita di Mosè.

Yochebed la coraggiosa
Un uomo della famiglia di Levi andò a prendere in moglie una figlia di Levi. La donna concepì e partorì un figlio, vide che era bello e lo tenne nascosto per tre mesi. (Es 2, 1-3)
Simbolo di tutte le madri coraggiose è la mamma di Mosè, Yochebed, sposa di Amram figlio di Levi e di Melcha; nel Talmud, l’altro libro sacro dell’ebraismo, viene identificata con Sifra, una delle due levatrici al quale il faraone ordinò di impedire la nascita dei bambini ebrei; il premio che Dio avrebbe promesso a essa per aver disobbedito ai comandi del monarca era appunto il fatto di divenire madre di grandi due personaggi della storia ebraica, Aronne e Mosè. Dopo la nascita del bambino è costretta a tenerlo nascosto per tre mesi perché il re, dopo il fallimento del tentativo di infanticidio ordinato alle levatrici, riprova ad eliminare i bambini ebrei ordinando agli egiziani di buttarli nel Nilo.
Per questa madre saranno stati tre mesi vissuti nell’angoscia di vedere continuamente il bambino in pericolo, ad ogni vagito, ad ogni pianto.
Più che la disperazione, sembra sia proprio l’amore viscerale che lega la madre al figlio e la speranza di vederlo salvo, che le da il coraggio di costruire una cesta di papiro e di porre Mosè in quella culla improvvisata, lasciata scivolare lentamente nel Nilo affidando il bambino a Dio; quante saranno state le lacrime di quella madre che si sono mescolate all’acqua del fiume, e quante le sue preghiere!



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