Innamorarsi in un campo Rom (da Internazionale)
di Annalisa Camilli, giornalista di Internazionale
8 giugno 2017
L’acqua
scende dal lavello della cucina. “Non la possiamo chiudere mai, altrimenti le
tubature scoppiano per la pressione”, dice la ragazza con gli occhi azzurri.
Accanto a lei c’è Nedzad, seduto nel salotto di un container del campo rom di
via di Salone, all’estrema periferia orientale di Roma, sedici chilometri e
mezzo dal centro della città. La ragazza con gli occhi azzurri è Valentina
Maria e da quando si è innamorata di un ragazzo rom, Nedzad, spesso viene a
dormire nel campo.
“Le
pareti di questi container sono di carta, non proteggono dal freddo né dal
caldo. Se non avessi comprato il ventilatore, oggi qui dentro non si potrebbe
stare”, dice Nedzad mentre con il pugno bussa sulla parete bianca. Una
vibrazione si propaga in tutta la struttura che sembra una scatola, due metri
per otto di densa aria calda. Dalla porta spalancata entra l’afa e la luce
radiosa di una domenica di giugno, un piccolo gatto tigrato dorme sul tappeto
sotto al tavolo. Si chiama Mozzichetto.
Neomelodici
Nedzad Husovic ha 26 anni, è nato a Roma, da una famiglia khorakhanè di origine
bosniaca, oggi vive nel campo di Salone, in un container a due metri di
distanza da quello dei suoi genitori e ad altri due metri da quello della zia
Zumra. Tutti lo chiamano Pio. “Da bambino amavo i pulcini, per questo mio
fratello ha cominciato a chiamarmi così”, racconta, toccandosi insistentemente
un folto ciuffo di capelli neri.
All’inizio
degli anni novanta le truppe serbe e montenegrine bombardavano e assediavano
Mostar, la città della ex Jugoslavia da dove proviene la sua famiglia, mentre
Pio nasceva in un campo al Quarto Miglio, un quartiere nella periferia di Roma.
“Io mi considero romano, anzi di Centocelle”, afferma. Al Casilino 900, uno
degli insediamenti informali più grandi di Roma, sgomberato dal sindaco Gianni
Alemanno nel 2010, Pio è cresciuto e ha frequentato la scuola. “Andavo in
parrocchia, all’oratorio a giocare a pallone”, racconta. Aveva amici e compagni
di scuola che venivano da lui al campo e da cui lui andava spesso a dormire.
“Mi
sono accorto abbastanza presto di cosa significa essere rom: quando ho
cominciato ad andare a scuola, le insegnanti ci trattavano come ragazzi
diversi. Ci mettevano a sedere negli ultimi banchi, ci davano da fare compiti
strani come se fossimo ritardati”, racconta. Spesso doveva comporre dei puzzle,
mentre gli altri bambini studiavano sui libri e seguivano il programma
scolastico. “Si sono accorti di me quando un giorno ho alzato la mano per
rispondere a una domanda che la maestra aveva fatto alla classe”, racconta.
“‘Devi andare al bagno?’, ha chiesto la maestra. ‘No, vorrei dire qualcosa sul
feudalesimo’, ho detto io”.
Hanno perfino chiamato il preside quella volta, perché un bambino rom
era intervenuto durante la lezione ed era davvero un fatto eccezionale, secondo
gli insegnanti. Pio ha preso la licenza media con ottimi voti, ma poi non ha
potuto frequentare il liceo, come invece avrebbe voluto. Non aveva la
cittadinanza italiana. Come la maggior parte dei rom nati in Italia da genitori
di origine jugoslava sarebbe potuto diventare cittadino italiano solo al compimento del diciottesimo anno di età, a condizione di farne richiesta entro un anno.
Molti
rom sono apolidi di fatto...
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