I Rom li ho guardati in faccia, e dico no alle ruspe


Il 20 e 24 luglio scorso hanno avuto luogo due assemblee con gli abitanti del campo Rom di via Cupa Perillo, a Scampia, convocate dalla Procura della Repubblica di Napoli. L'oggetto è il decreto di sequestro preventivo di tre campi con ingiunzione di abbandono entro l'11 settembre 2017. Alla presenza di una settantina di Rom e numerosi rappresentanti di associazioni, comitati e singoli, nell'ampio cerchio dei partecipanti all'assemblea mi sono trovato di fronte a numerose donne con i loro figli, preoccupate di rimanere senza tetto con le loro famiglie, anche per la mancanza di informazioni da parte dell’Assessorato al Welfare circa eventuali altri progetti. Le espressioni più comuni erano “Ci cacciano” e “Non abbiamo dove andare con i nostri figli”, che lasciano trasparire un diffuso scetticismo se non fatalismo per promesse non mantenute.

Al di là delle discussioni sul “che fare” (e della preparazione di un documento con le preoccupazioni e le richieste degli abitanti da sottoporre al Comune) si tratta primariamente di guardare in faccia queste donne, i loro figli che scorrazzavano intorno, gli uomini dal volto bruno. Una umanità affiorante prepotentemente in volti e corpi di donne e bambini, vita da preservare e promuovere. Una umanità in condizione di debolezza e fragilità, con esigenze e bisogni primari: un tetto sotto cui abitare, la disponibilità di acqua, luce, cibo per sopravvivere, accesso all'istruzione e alle cure sanitarie. Sono chiaramente soggetti “deboli” per ragioni storico-culturali, e nel caso specifico anche contingenti: popolazioni serbe rifugiatesi in Italia circa trent'anni fa per il disfacimento della ex-Jugoslavia; un popolo, una minoranza senza terra, rappresentanza né status riconosciuto; sprovvisti per la protratta esclusione della “cassetta degli attrezzi” materiali, sociali, culturali per affrontare situazioni di emergenza come quella abitativa con lo sgombero intimato. Appare evidente guardando in faccia queste donne e bambini che vogliono vivere come noi, che l’approccio adeguato, sostenuto da normative internazionali, europee e nazionali è quello dei “diritti umani” da assicurare e difendere.

Bisogna sfatare un luogo comune interessato se non malevolo: che la risoluzione dei problemi dell’esistenza dei campi Rom degradati e degradanti sia lo sgombero forzato senza garanzia o proposta di soluzioni abitative alternative. Anche se la sistemazione in campi è certo da superare secondo la “Strategia Nazionale di Inclusione dei Rom, dei Sinti e dei Camminanti 2012-2020”, poco applicata finora nel nostro paese e nella regione Campania. Vista la sequela di sgomberi nel corso degli ultimi dieci mesi, per intervento prevalente della Magistratura (via Wolf a Ponticelli, via Brecce a Gianturco, via Cupa Perillo a Scampia, per un totale di circa 2000 soggetti), non vorremmo che nella pubblica opinione indifferente se non ostile si affermi e sostenga come risolutivo il provvedimento degli sgomberi, al posto dell’Inclusione sociale richiesta dalle strategie europee e nazionali. Rischiamo la perdita di civiltà e socialità spesso sbandierate. 

Risulta sospetta la convergenza tra Magistratura napoletana e Amministrazioni locali, in primis Regione Campania, nell'eliminazione dei campi Rom, quando le inosservanze di normative europee e nazionali e quindi le illegalità appartengono  anche  agli organi amministrativi, non ai poveri diavoli che per sopravvivere rubano acqua ed elettricità, e producono immondizie non rimosse. Molti peccati e reati di omissione politica si possono configurare e sanzionare,  senza ignorare le denunce strumentali di alcuni consiglieri dell'VIII Municipalità  per interessi personali di bottega, dimenticando altri reati di maggiore peso.

Nel caso dello sgombero di via Cupa Perillo, occorre tener presente alcune caratteristiche specifiche. La prima riguarda il tempo di esistenza di questo insediamento informale: 25/30 anni ai margini del quartiere Scampia, come “rifugiati” (tali erano anche se non furono riconosciuti) dai conflitti etnici tra paesi della ex-Jugoslavia. Si sono susseguite in condizioni di abbandono e precarietà di vita diverse generazioni, e attualmente siamo alla seconda e terza generazione di figli che parlano italiano, frequentano in maggioranza gli istituti scolastici del quartiere, i doposcuola promossi da associazioni e chiese, partecipano ad  attività sociali ed aspirano a vivere come noi. 

Per queste ragioni si potrebbe chiedere al Sindaco di Napoli di conferire a questi bambini la cittadinanza napoletana secondo i dispositivi della legge in discussione in Parlamento sullo ius soli. Più importante, a nostro avviso, è che al di là dell’intervento sociale e culturale di associazioni, gruppi e chiese del territorio, e dei ritardi di realizzazione di progetti dell’Amministrazione comunale, nell'ultimo decennio si sia realizzata una positiva “integrazione” non solo sul piano dell’istruzione scolastica, dell’uso del mezzo televisivo, dell’accesso ai servizi sanitari, ma dei consumi quotidiani e nei modi di vestire delle donne, che si sono adeguati a ciò che offre il mercato popolare. Una relativa accettazione e convivenza pacifica con parte del quartiere, e talora di conoscenza, fiducia ed amicizia non solo con operatori sociali ma con cittadini attenti ai bisogni degli altri. Tutto questo sarebbe cancellato in un batter d’occhio dalle ruspe inviate per far piazza pulita di un insediamento che è prima di tutto umano, non solo le baracche abitate da decenni, ma un tessuto sociale di rapporti, riconoscimenti, interazioni anche quotidiane nei luoghi del quartiere. E' evidente che si tratterebbe di un autentico “delitto” contro l’umanità, di “inequità” per dirla con il linguaggio di papa Bergoglio, se non si trovano sistemazioni abitative alternative.    

Riguardo la situazione concreta di queste baraccopoli, ci sovviene il famoso detto del filosofo tedesco Hegel nella Fenomenologia dello spirito: "La notte delle vacche nere", ovvero l’esistenza di differenze nell'abitazione secondo diverse possibilità e risorse degli abitanti. In primo luogo è nota la cura generale dell’abitazione da parte delle donne pur nella “notte” del degrado ambientale, ed in secondo luogo negli ultimi anni a macchia di leopardo abbiamo notato investimenti da parte di famiglie per rendere la loro baracca più vicina ad una civile abitazione anche con il contributo di cittadini del quartiere e talora della Caritas diocesana. Chi risarcirà questi investimenti se una ruspa non farà differenze nella sua furia di abbattimento? Di qui l’indignazione, perché si tratta di un diritto umano primario, abusivismo o meno.

Certo non basta l’indignazione e la scomunica sociale di alcuni interessati per manifesta inumanità, ma occorre far ricorso e resistenza con gli strumenti legali a disposizione, con quelli nonviolenti collettivi, ed esporre le proprie ragioni non solo davanti Palazzo San Giacomo ma all'intera comunità cittadina che non può rimanere indifferente davanti a diritti umani da riconoscere e preservare.

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