Eresie costruite sulla sabbia (G. D'Alessandro)

di Giacomo D'Alessandro


Finalmente i gruppuscoli più accaniti nello screditare Papa Francesco sono usciti allo scoperto con un lungo documento in cui lo accusano di sette eresie. Negli anni passati mi è successo diverse volte di trovarmi a sostenere pubblicamente la necessità di riforme nella Chiesa (tra cui quella famosa e relativamente semplice della comunione ai divorziati risposati), e diverse volte mi è successo di ricevere accuse rispetto al fatto che quelle critiche non erano legittime. Con Papa Francesco è gioco facile dimostrare oggi che quelle critiche costruttive non solo erano legittime, ma anche condivisibili e condivise da molta parte della chiesa e dei vescovi. Qualche commentatore un po’ troppo acceso nei miei confronti rivendicava talvolta la sua completa e doverosa “ortodossia obbediente”, di fronte alla mia inopportuna “eresia riformista”, leggendo nei miei spunti soltanto un attacco polemico sterile e distruttivo. A commentatori di questo tipo, rispondevo con sincerità di fare attenzione a coltivare una simile rigidità, perché il giorno che anche dall’alto certe riforme fossero state messe a sistema, sarebbe loro mancata la terra sotto i piedi.
Questo è esattamente quello che, a mio parere, sta accadendo negli anni di Papa Bergoglio. Una epifania, uno svelamento: molti che si credevano perfettamente cattolici, e che su questo facevano forza identitaria nel rapportarsi con il mondo, si sentono mancare la terra sotto i piedi. Si accorgono – per usare un’immagine adoperata spesso dal Papa – che forse sono stati cattolici senza essere di fatto cristiani (il Vangelo è pieno di citazioni che raffigurano questa dinamica). Alcuni di questi sono ancora preda dello smarrimento; altri cercano come possono di recuperare terreno, capire meglio, adeguarsi, lasciandosi convertire da un nuovo corso (che, a ben vedere, è tuttaltro che elitario, ma accessibile e inclusivo per tutti, disponibile a non lasciare nessuno indietro); altri ancora, invece, proprio non possono ammettere di aver preso delle cantonate clamorose, o forse per formazione e cultura non sono in grado di comprenderlo: allora passano all’attacco.
Sono quelli che fino a ieri inquisivano chiunque nella Chiesa non prendesse ogni parola del Papa come oro colato. Bene, oggi che proprio un Papa e atti del Magistero realizzano certe riforme, non sanno che fare. Dunque usano l’unica arma che rimane loro: accusare il Papa di non essere il vero Papa; o di non essere sano di mente; oppure – atto finale – di commettere eresia. La debolezza di questo approccio critico non è soltanto l’enorme contraddizione del fondamentalismo (“qualsiasi cosa dica il Papa è giusta perché è il Papa”) nè quella dell’incoerenza (“se un Papa non conferma quelle che ritengo le regole intoccabili della mia identità, non è il vero Papa, non ha ugual valore, va corretto”). La vera clamorosa debolezza è che sono critiche di cui non è mai definita la fonte. Su cosa poggiano? Basta leggere articoli, lettere e documenti del caso per accorgersene: non citano mai l’esempio di vita di Gesù di Nazareth; non citano mai passaggi dei Vangeli e della Scrittura (e quando avviene non sono mai interpretati secondo criteri aggiornati); non citano mai esperienze di vita vissuta, bisogni dell’uomo attuale, fame e sete di giustizia. In nome di cosa avanzano accuse di eresia o pretese di ortodossia? Non in nome della Tradizione con la T maiuscola, che come insegna il Magistero non è certo vincolabile ed esauribile in forme contingenti e storiche. Questi gruppi critici si rifanno invece spesso a tradizioni formali sbandierate come riferimenti assoluti, a logiche di continuità formale, circoscritta però a periodi e personalità di una certa epoca. Come quel gruppo di seguaci di Lefebvre che al Concilio non accettarono la riforma liturgica, ancorandosi ad una forma precedente, medievale, non certo fondativa, e che ad essere onesti ben poco ha a che vedere con la fonte evangelica dell’eucaristia.
Ecco. Come il riavvicinamento dei lefebvriani auspicato da Ratzinger ha portato alla luce, cinquant’anni dopo, l’effettiva distanza culturale e teologica di quel gruppo religioso dalla vita della chiesa nel mondo contemporaneo, così allo stesso modo oggi una parte di chiesa, di se dicenti cattolici ultraortodossi, si riscoprono in fondo lefebvriani nella cultura ecclesiale e teologica che hanno voluto ad ogni costo fossilizzare e rivendicare in maniera non negoziabile. Sembrano ignorare la storia della chiesa, che ha visto mutare approcci dottrinali, teologici e pastorali ad ogni epoca. Sembrano ignorare i valori della sinodalità, della misericordia, della pastoralità autentica. Sembrano ignorare le fonti del cristianesimo, l’esperienza di Gesù e quella dei primi secoli delle comunità cristiane. Pongono come obiettivi aspetti che nella vita di fede non possono essere che strumenti (riti, norme, formalità, percorsi, ruoli). Perdono il senso dell’essere chiesa: annunciare ciò che Gesù ha annunciato. Cercare prima il Regno di Dio e la sua giustizia. Aiutare gli uomini ad avere vita e gioia piena, e in abbondanza. Tentare di vivere come Gesù ha vissuto. Tentare di morire come Gesù è morto…
C’è una grossa, enorme differenza tra questo approccio critico ultracattolico costruito sulla sabbia, e la critica cristiana che in varie forme si è manifestata dal Concilio ad oggi. Basterebbe – uno per tutti – riprendere il libro “Salviamo la chiesa” del teologo svizzero Hans Kung per rendersi conto dell’abisso esistente tra queste due critiche, tra queste “due chiese”. Il dissenso post-conciliare (quello serio) si è quasi sempre basato sulla richiesta di attuazione concreta e prosecuzione delle riforme del Concilio Vaticano II. Come dice Alberto Melloni, parla in maniera credibile di riforma della Chiesa colui che con ciò intende che la Chiesa diventi sempre più vicina al Gesù e al Vangelo da cui ha origine. A questo si è sempre rifatta la gran parte del dissenso ecclesiale “riformista”. A fronte di un Vaticano e di una gerarchia spesso resistenti, ancorati a logiche antiquate e medievali, a religiosità “oppio del popolo”, a dottrine e formalità non più latrici di misericordia e di annuncio rispetto ai segni dei tempi. Quella a favore di una chiesa evangelica, misericordiosa come il Padre, è l’unica critica sensata possibile. Come quella a favore di un’umanità in cui regni la giustizia, prendendo sempre le parti di chi subisce oppressioni e ingiustizie.
Certo che il Papa, la Chiesa istituzione, la gerarchia, chiunque ricopra ruoli di responsabilità devono essere oggetto di critica. Oggi come ieri. Sono uomini, e come tutti gli uomini possono capitare persone di buona qualità, ma anche persone di pessima qualità, che fanno strada con i criteri mondani, e non con quelli evangelici (“non si può servire due padroni”). Il senso critico costruttivo è proprio delle persone libere, coinvolte, appassionate, disposte a impegnarsi e a collaborare per migliorare insieme. Certo che il Papa può e deve essere criticato. Ma a che pro? Su che basi? In nome di nostalgie medievali? Per la sindrome della Chiesa-fortino assediata dal mondo cattivo? Perseguendo l’esclusione di categorie di persone da stigmatizzare come “irregolari” a confronto dei “regolari”? Nella farisaica ricerca di una nuova stagione di norme, regole e dottrine che garantirebbero una piena vita cristiana felice e armoniosa? O non piuttosto in nome dell’esperienza di Gesù di Nazareth e delle comunità di donne e uomini suoi discepoli? O non piuttosto in nome della costruzione del Regno dei Cieli come vita in pienezza e in giustizia dell’umanità?
E’ evidente come la distanza sia ampia. Due visioni, due approcci, due concezioni di cristianità e di comunità ecclesiale. Questa forbice c’è sempre stata, negli ultimi decenni. Quando ai piani alti si preferiva scoraggiare il confronto, il dibattito, la partecipazione, la crescita evangelica collettiva, tutto questo era meno visibile. Il dissenso ecclesiale costruttivo era meno visibile anche perché spesso ne erano protagonisti persone senza ruoli di potere, né ambizioni in tal senso, che non fremevano dalla necessità di stabilire un dentro e un fuori dalla Chiesa, su cui fare guerra per relegarvi gli avversari. Non erano e non sono gente che si pone come cattolici integri e perfetti, che ammoniscono i devianti. Ciò che invece sembra avvenire oggi dall’altra parte. Ma le due critiche non possono essere superficialmente poste sullo stesso piano: quella “riformista” ha radici nel Vangelo, e non vuole precludere a nessuno la parola, ma che la chiesa tutta proceda sinodale consentendo un pluralismo poliedrico, di cui fare sintesi; la critica “tradizionalista” non presenta radici precise e convincenti, e pretende l’esclusione di qualunque pensiero “altro” bollato come eterodosso e quindi minaccioso. Per questo si tenta di screditare Papa Francesco nei suoi iniziali e ancora leggeri tentativi di riforma. E per questo Francesco cerca fortemente di aprire processi di confronto sinodali, che tengano dentro tutti, prendendo il meglio da tutti i carismi, aumentandone l’efficacia effettiva. Per tornare ad un cammino di popolo, dove si possa avere fiducia in pastori selezionati per qualità nel servizio, non per corrente ideologica di potere. Oggi rifiutarsi di decidere come fare passi avanti, in nome di false continuità, non è più una opzione percorribile. Significa, ogni volta che succede, rifiutare di aprirsi a “spirito e verità”, essenziali per adorare il Padre, attraverso il servizio alla vita piena dell’umanità.

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