Non capisci i populismi? Questione di velocità


di Domenico Pizzuti sj


Per non essere vissuti dagli accadimenti anche in campo politico, o essere preda delle voci contrastanti dei media, è importante disporre di strumenti di studio ed approfondimento. I recenti sconvolgimenti politici hanno visto la conquista del potere da parte di movimenti e partiti “populisti” o “nazionalisti e sovranisti”, che il dibattito giornalistico e mediatico riconduce a movimenti cosiddetti “populisti”. Le elezioni politiche del 4 marzo hanno portato alla formazione del governo definito “giallo-verde”. 

Segna una discontinuità non solo di politico-economica ma di conduzione del governo in riferimento ad un indistinto “popolo” che li ha eletti e di cui assumono rappresentanza e protezione. Di fronte a semplificazioni del dibattito politico e analitico, ci siamo convinti che per convenienze di consenso e propaganda politica questo consenso di popolo a partiti e movimenti vittoriosi non può essere semplicisticamente ricondotto a “paura” ed esigenze di sicurezza nei confronti dell’immigrato, del rifugiato, del diverso, dell’Altro a noi vicino - paura cavalcata per scopi di consenso e che non può costituire il focus di una politica per il paese. E’ una enorme semplificazione, come una nuvola scura da cui bisogna guardarsi per non essere obnubilati e strumentalizzati, anche di fronte ad alcuni risultati di una politica migratoria dai porti e dalle porte chiuse, che presenta dosi di “peccati di inumanità”. 

Come scrive al termine di un denso, documentato studio Marco Revelli, docente di Scienza Politica all’Università del Piemonte Orientale, Populismo 2.0 (Einaudi 2017), "Dio acceca coloro che vuol perdere". L’Autore spazia a tutto campo storicamente sulle varie forme di populismi manifestatisi in forme molto diverse nel corso della storia, tra la fine dell’Ottocento ed il Novecento, fino ai new populism di Stati Uniti d’America ed Europa (Inghilterra, Francia, Germania, Italia). Per l’Autore, il populismo di cui si discute è il sintomo della malattia della forma di democrazia contemporanea, che è la Democrazia rappresentativa: "Ogni qualvolta una parte del <popolo> o un popolo tutto intero non si sente rappresentato, ritorna in un modo o nell’altro un qualche tipo di reazione cui si è dato il nome di <populismo>. Non si tratta più come all’inizio del ciclo democratico di una <malattia infantile della democrazia> (una sorta di rivolta degli esclusi), ma una <malattia senile della democrazia>, quando l’estenuazione dei processi democratici ed il ritorno in forze di dinamiche oligarchiche nel cuore delle democrazie mature rimettono ai margini e tradiscono il mandato di un popolo rimasto <senza scettro> (una <rivolta degli inclusi> messi ai margini). In entrambi i casi - è la tesi centrale del libro - la sindrome populista è il prodotto di un deficit di rappresentanza". 

Rispetto all’aggregato informe ed indistinto che costituisce il riferimento al “popolo”, l’Autore tiene a sottolineare come nell’elaborazione di questo libro ha sperimentato che quanto genericamente chiamiamo <popolo> non è un nuovo (o forse vecchio) “soggetto politico” in senso proprio (come si fa a parlare di “manovra economica” del popolo?!), un partito politico, un movimento, con una propria identità strutturata, una propria matrice organizzativa, una propria cultura politica. E’ una entità più impalpabile, e meno identificabile entro specifici confini ed involucri. "E’ uno stato d’animo, un mood. La forma informe che assumono il disagio ed i conati di protesta nelle società sfarinate e lavorate dalla globalizzazione e della finanza totale nell’epoca dell’assenza di voce e di organizzazione", con cui Trump nella propaganda per le elezioni presidenziali e dopo è entrato in sintonia con un linguaggio che riconosceva i perdenti della de-industrializzazione e della globalizzazione selvaggia in America. 

Ad avviso di Revelli, il voto a Trump non è la rivolta dei poveri, piuttosto la vendetta dei deprivati, di quelli che hanno perso qualcosa, anche tra i middle ed upper class. Non solo di averlo perduto, ma di esserne stati privati, da altri, cioè dalle élite, dalla finanza e dalle banche, per noi la palude di Roma ladrona e dalle caste politiche e burocratiche.
Di fronte all’affermarsi di nuove forme di populismo nelle società e poi nel governo politico, che ha scompigliato previsioni e progettualità dell’élite politiche e mediatiche, è una chiave interpretativa il riferimento alle dinamiche sociali profonde e non sempre visibili di società complesse, che si muovono a diverse velocità. Secondo il nostro Autore si tratta di rendersi conto che "un paese complesso - come non solo l’America -non ha un solo tempo sincronizzato e uniforme, muove a differenti velocità, e accanto alla vertigine temporale del world trade e della società globalizzata ci sono altre temporalità, che resistono e vanno in direzione ostinata e contraria. Lunghe durate, che la velocità di superficie può marginalizzare, ma che sopravvivono e riemergono - carsicamente appunto - in comportamenti individuali e collettivi".

Abituati alle narrative dei media ufficiali, come gli indiani, occorre porre gli orecchi al suolo per cogliere i brontolii, i rumors, le voci della “società di sotto”.

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