Populismo: La politica senza politica


di Domenico Pizzuti


Documentato e vivace il volume La politica senza politica. Perché la crisi ha fatto entrare il populismo nelle nostre vite (Einaudi, 2019) di Marco Revelli, docente di scienza politica all’Università del Piemonte Orientale. Revelli ha messo in sequenza ed in parte riscritto tre suoi saggi dell’ultimo settennio: Populismo 2.0 (2017), Finale di partita (2013), Poveri, noi (2010), perché costituiscono le tessere di un unico mosaico che contribuisce a comporre il ritratto di un mondo irriconoscibile per l’uomo del Novecento, i cui codici di ieri non significano più nulla perché si è verificato un mutamento sistemico, non sempre avvertito dalla stessa politologia. 

Se si fossero gettate le sonde sotto il pelo degli eventi, secondo l’Autore si sarebbe avvertito il brontolio sordo della crisi di sistema che andava maturando. E quindi intuire il vuoto che si apriva con la disgregazione di un intero mondo, il mondo del lavoro in particolare, pilastro dell’ordine sociale della modernità matura. Nell’insieme questo trittico di saggi forma un contesto di analisi e riflessioni sulle dinamiche e le trasformazioni economico-politiche, un mutamento sistemico che invoca un mutamento del paradigma socio-produttivo fordista, e di quello burocratico weberiano, che avevano segnato aziende produttive, sistemi burocratici, organizzazioni partitiche nel Novecento. 

La devastante crisi economico-finanziaria 2007-2014 ha prodotto negli strati popolari impoveriti e traditi rancore, frustrazione, rabbia ed invidia sociale, fino a che l’uomo dimenticato e messo ai margini ha cominciato ad invocare un risarcimento mediante il sacrificio altrui. E’ il racconto di come siamo giunti fin qui, del perché la crisi ha fatto entrare il populismo nelle nostre vite, come recita il sottotitolo del volume.

Nella prima parte del libro l’Autore si occupa dell’insorgenza della sindrome populista. Insieme ad un tentativo di definizione del nuovo populismo - del populismo 2.0 come l’ha chiamato nel saggio citato prima - attraverso la lettura dei suoi principali interpreti sul versante scientifico si passano in rassegna le maggiori esperienze populiste degli ultimi anni: dall’imprevisto risultato del referendum inglese sulla Brexit, all’elezione inaspettata di Trump negli Stati Uniti, alle convulsione dell’Europa di Visegrad, alla grande paura di altri paesi europei come Francia e Germania, fino alla metamorfosi italiana con i movimenti nazionalisti e populisti della Lega e dei M5S. Senza dimenticare gli storici ed attuali movimenti populisti latino-americani. 

Rispetto all’acclarata difficoltà di una definizione di populismo, - troppi significati per un solo significante o troppe persone sotto lo stesso ombrello -  da alcune definizioni scientifiche riportate nel volume possiamo assumere la fondamentale caratteristica bipolare o bifocale della sindrome populista. Cioè la tendenza a dividere lo spazio politico in alto e basso, tra i troppo potenti e i troppo poco. Ad un primo livello di approssimazione si può assumere la sintesi formulata all’inizio della scorsa decade dal politologo olandese Cas Mudde, che ha definito il populismo come "un’ideologia che considera la società fondamentalmente separata in due gruppi omogenei ed antagonisti, il “popolo puro” versus “l’élite corrotta” e che sostiene che la politica dovrebbe essere espressione della volonté generale del popolo". 

Ad un livello più analitico altri Autori hanno segnalato una seconda caratteristica, cioè la sua pulsione  antipluralista, come  Mueller: "oltre ad essere antielitari i populisti sono antipluralisti. Sono gli unici a poter rappresentare il popolo". Il popolo è inteso as a whole, come un tutto, è un’entità organica, indifferenziata, omogenea, e non conosce distinzioni interne, siano esse di interesse o di culture. E’ rifiutata la classica divisione politica tra destra e sinistra (distinzione orizzontale), in nome della contrapposizione verticale tra alto e basso, o tra dentro e fuori, nella quale il nemico attraverso cui viene costruita l’unità organica del popolo è il non noi, l’estraneo, il corrotto/corruttore, o lo straniero. Senza tuttavia cadere nella fallacia dell’interessato e sbandierato (non provato) superamento della distinzione sociale tra destra e sinistra, mentre altri studiosi hanno rilevato distinzioni di impostazioni ed azioni dei movimenti populisti a seconda di una connotazione di destra e sinistra. 

Un ulteriore fattore comune ai molteplici populismi si riferisce al rovesciamento dell’oligarchia usurpatrice e alla restaurazione di una sovranità popolare finalmente riconosciuta, da esercitare grazie all’azione di un leader in grado di fare il bene del popolo, cioè di farsi garante della salute pubblica. Ciò spiega perché in genere i populismi assumono un linguaggio ed uno stile "rivoluzionario", senza necessariamente rinviare a radicali messe in discussione degli assetti sociali o proprietari, spesso limitando la dimensione del mutamento al solo livello del personale di governo.

Nel contesto dei sommovimenti populistici emersi sia in paesi dell’Europa occidentale sia orientale, specie con Visegrad, l’Italia è l’ultima arrivata, contribuendo al mosaico con una sorta di iper-populismo bipolare, un nuovo schock per l’Europa. Sarebbe un errore sottovalutare la portata dirompente del voto del 4 marzo, a dire del Revelli, un autentico terremoto della massima magnitudo: secondo il nostro Autore "potremmo dire che questo voto ha, per molti aspetti un connotato costituente, nel senso che è tale da rivelare una inedita costituzione materiale del nostro paese". Infatti il voto del 4 marzo è stato caratterizzato da un larghissimo consenso ai partiti anti-establishment, uno nazionalista come la Lega, e uno movimentista come il M5S, rigettando con un autentica ribellione le élite dominanti governative ma non solo. Usando lo strumento legittimo del voto e dando vita per la prima volta al governo giallo-verde sulla base di un contratto di governo. 

Con il Revelli si può rilevare che entrambe le forze che hanno monopolizzato il cambiamento, essendo "radicali nel linguaggio e nella denuncia dell’esistente, non abbiano mai neppure di sfuggita mosso critiche ai fondamenti del sistema che dicono di contestare, ed ai rapporti sociali che lo sorreggono, al regime proprietario iniquo che ne determina le vertiginose ineguaglianze, così come mai hanno proposto soluzioni alternative allo stato di cose esistenti".

La seconda parte del libro, attraverso un’ampia disanima della letteratura politologica sulla crisi della democrazia negli ultimi decenni, riguarda il destino della forma partito e la sua crisi. Affronta cioè la crisi della democrazia non più sul piano della sua fenomenologia ma del suo statuto organizzativo, del venir meno degli strumenti con cui tradizionalmente aveva funzionato, cioè i partiti. Perchè pende minacciosa la domanda se possa esistere o sopravvivere una democrazia senza partito. 

La terza parte affronta la questione del contesto sociale ed economico per scavare dentro la crisi economico-finanziaria 2007-2014, non solo per misurarne profondità ed estensione, con l’impoverimento per esempio del ceto medio, ma per tentare di verificare le mutazioni antropologico-culturali che ha trainato con sé. Infatti il volume si chiude con la ripresa di alcune chiavi interpretative di carattere psicanalitico, di emozioni e reazioni collettive, non solo come rancore, risentimento, ma di “invidia sociale”: “perché a loro sì e a noi no?”, o forse “a noi sì ed agli stranieri no”, come appare da alcuni provvedimenti governativi che penalizzano migranti e rifugiati. Si tratta di un meccanismo psicologico e sociale che genera questo tipo di risposta distruttiva, perché non produce vantaggio per nessuno, e si limita ad azzerare un possibile sollievo: dunque apparentemente irrazionale.

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