Contraddizioni di genere, nella Chiesa

di Domenico Pizzuti sj


La richiesta di riconoscimenti concreti per l’azione missionaria delle donne nelle comunità amazzoniche - che riteniamo l’eventuale conferimento del diaconato in forme da definire - insieme alla richiesta di cura pastorale stabile con “preti sposati anziani”, mi sembra richiamino su un piano più elevato di analisi la “QUESTIONE DI GENERE” anche nella vita della chiesa. 

Nel senso di disuguaglianze, diversità, disparità di posizioni, ruoli, riconoscimenti e valorizzazione del contributo delle donne alla vita delle comunità cristiane; di opportunità di accesso allo stesso sacro più che al divino, che almeno in Italia non sembra negli ultimi decenni essere stato preso in considerazione, forse per un comodo conformismo clericale da parte degli stessi credenti e dei nuovi movimenti. Discussione quindi sopita per resistenze culturali, persistenza di pregiudizi sessisti in alto ed in basso provenienti dalla notte dei tempi, che fa comodo ad un quietismo religioso e civile, pago di alcuni risultati conseguiti nella società

A questo proposito, è impressionante l’esistenza nel XXI secolo di questa imponente costruzione religiosa ultra-secolare che poggia sulla chiesa istituzionale e sulla figura preminente del sacerdote; contraddizioni nemmeno più contestate dall'interno della chiesa e della società, specialmente nel Sud d’Italia, per scarsa conoscenza e irrilevanza più che per disinteresse verso i suoi insegnamenti.

L’ipotesi di consacrare sacerdoti “uomini, sposati, anziani” per avere la presenza stabile di un sacerdote nelle comunità locali, rappresenta certo un superamento del celibato sacerdotale obbligatorio richiesto per accedere al sacerdozio, sotto la spinta della penuria e la richiesta delle comunità amazzoniche. Eppure rileviamo alcune incongruenze: 
1) la formula ha un chiaro sapore occidentale curiale, e in ogni caso resta da definire, dopo un’eventuale proposta dell’assemblea sinodale va vagliata dal Pontefice; 
2) più che insistere sull'età avanzata, in ragione di una non scontata “pace dei sensi”, importa la formazione e preparazione adeguata di questi novelli sacerdoti negli aspetti teologici e pastorali, per non avere sacerdoti di serie B; 
3) un sacerdote sposato non si tratta più di un individuo singolo ma di una coppia, e in forza del sacramento del matrimonio celebrato dai due sposi, che li congiunge nell'amore e donazione reciproca quotidiana, viene da dire "l’uomo non disgiunga ciò che Dio ha unito". Come risolvere allora la separazione all'altare della sposa? Tutto da definire, sperimentare, vivere, e non si può dire “mettiamo la sposa sotto l’altare!”, in forza dell’unione sponsale dovrebbe e potrebbe accompagnare lo sposo nelle celebrazioni dei sacramenti, magari
con funzioni diaconali. 

Non si tratta di ragionamenti bizantini: il matrimonio che ha unito gli sposi, li congiunge non solo nell’atto amoroso - che a nostro avviso apre al divino -, ma nella comunione della vita quotidiana. Al di là di altri compiti caritativi ed assistenziale come avviene ad esempio nella prassi politica del mondo anglosassone - il marito al Parlamento e la sposa dedita ad istituzioni benefiche -, esiste un importante compito che la donna potrebbe assolvere: la coesione della comunità. 

Ciò che avverrà, solo i nostri nipoti lo potranno dire. Comunque vanno salvaguardate le esperienze comunitarie religiose o meno con il contributo di tutti, in un mondo moderno “liquido” che rinserra nel narcisismo individualista.
Rimane il chiaro ammonimento evangelico ai discepoli: “Siete tutti fratelli” (naturalmente comprese sorelle), che si traduce nell’importante riscoperta conciliare della nozione biblica di “popolo di Dio”, a cui si appartiene tutti al di là di differenze di genere, cultura, condizione sociale. E’ la base della comunità e della vita cristiana anche oggi.

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