Quei bar e ristoranti che mancano in periferia

di Domenico Pizzuti sj

L’attenzione dei media e dei cittadini in questa prima settimana di riaperture di numerose attività è dedicata in particolare alla riaperture delle attività produttive da quelle del commercio a quelle della ristorazione di bar e ristoranti secondo le ultime prescrizioni del Consiglio dei ministri. Ieri mattina a mezzogiorno di ritorno dalla Mostra d’Oltremare per la seconda dose del vaccino, sul lungomare oltre piazza Vittoria ho potuto osservare una fila di ristoranti con tavoli preparati all’aperto sotto bianchi gazebo, in attesa di clienti per pranzo e cena. Bar e ristoranti aperti nel lungomare e nel Centro di Napoli campeggiano nell’attenzione dei cittadini per poter riprendere usuali comportamenti di una tazza di caffè al bar e di una cena al ristorante la sera all’aperto nello spazio urbano centrale della città.

Nel contempo mi sovveniva per mie esperienze di vita e conoscenza delle periferie come per esempio quella di Scampia, che in quelle recenti popolari non esistono bar e ristoranti per gli abitanti se non sulla punta delle dita perchè destinate prevalentemente all’abitare nell’edilizia popolare o cooperativa. Per quanto riguarda Scampia devo rammentare che esiste almeno un bar frequentato nell’ambito delle strutture della 8a Municipalità, ed inoltre un ristorante etno-gastronomico “La Kumpania” dell’Associazione “Chi rom e... chi no” con una ristorazione preparata da donne napoletane e Rom del campo di Cupa Perillo. Un’esperienza esemplare ben nota che ha subito le stesse restrizioni di altri ristoranti. 

Abbiamo segnalato questa assenza di bar e ristoranti in alcune periferie non solo in questa contingenza di pandemia, perché mette in evidenza una condizione o qualità di vita di alcune periferie recenti, al di là di quelle storiche come la Sanità o Secondigliano dove non mancano questi ed altri servizi, che non favorisce attività aggregative se non prevalentemente quelle familiari o parentali anche per le scarse risorse di reddito delle famiglie abitanti caseggiati popolari.

E’ ovvio che queste famiglie non usufruiscono di ristori di sorta per attività produttive o commerciali degli abitanti. Un indicatore interessante è quello della spesa per il reddito di cittadinanza a marzo che emerge dalle tabelle dell’Inps sul reddito di cittadinanza che si avvicina a quella dell’intero Nord. A Napoli a marzo c.a. 157.000 famiglie percepivano il reddito o la pensione di cittadinanza per 459.000 persone coinvolte nel complesso. Circa la metà degli abitanti della città, si può ragionevolmente ritenere che questo reddito di cittadinanza sia percepito prevalentemente da ceti medio-bassi o precari che si possono localizzare nelle diverse periferie urbane. 

Nello stesso periodo nell’intero Nord 224.872 famiglie percepivano il reddito o la pensione di cittadinanza per poco più di 452.000 persone coinvolte. Questi redditi o pensione di cittadinanza, insieme ad altri bonus a singoli o famiglie, hanno assicurato nell’emergenza sanitaria la tenuta sociale di queste famiglie popolari abitanti nelle diverse periferie dell’area napoletana

Non si possono archiviare queste condizioni di vita delle famiglie nelle diverse periferie per quanto riguarda non solo bar e ristoranti, ma soprattutto la disponibilità di una serie di servizi civici per le famiglie per ovviare ad una “cittadinanza limitata” come è stato osservato non solo per l’intero Mezzogiorno (vedi Luca Bianchi Antonio Fraschilla, Divario di cittadinanza. Un viaggio nell’intera questione meridionale, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2020. ma per le grandi aree urbane.

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